Emanuele De Lucia Emanuele De Lucia

fido bancario e solvibilità del datore di lavoro

Il datore di lavoro che opera sul mercato solo con il fido bancario è pignorabile

Il caso specifico riguarda una società condannata al pagamento di un'indennità ad un ex dipendente. La società ha presentato ricorso in Cassazione e contestualmente chiesto alla Corte d’Appello di Roma la sospensione dell'esecuzione della sentenza di secondo grado con istanza ai sensi dell'art. 373 c.p.c. sostenendo il pericolo del danno grave e irreparabile per la circostanza di operare sul mercato solo con un fido bancario con saldo negativo, quindi in assenza di risorse finanziarie proprie.

Con ordinanza 13.11.2024, la Corte d'Appello ha ritenuto di nessun rilievo il fatto in sé che l’impresa abbia fatto ricorso al mercato creditizio, perché questa è la modalità con cui sovente agiscono molte imprese anche a prescindere da una carenza di liquidità indicativa di effettive criticità economico-finanziarie, potendo magari preferire tale modalità ritenendola vantaggiosa.

Infatti, molte imprese operano sul mercato formalmente in assenza di risorse finanziarie proprie per sfruttare il vantaggio dell’impignorabilità dei soldi ottenuti in presto dagli istituti di credito, potendo così scegliere quali debiti pagare con le risorse a disposizione.

Tuttavia, l’apparente carenza di liquidità propria non è di per sé indice di solvibilità se solo si considerare che qualsiasi istituto di credito per concedere e mantenere un fido verifica a monte la solvibilità e la situazione patrimoniale ed economica del cliente, e se le garanzie sono insufficienti, di norma revoca il fido o diffida il cliente a prestare idonee garanzie.

Nella fattispecie non era emerso da quanto tempo operava il fido, cosa prevedeva il relativo contratto e quali garanzie di solvibilità avesse offerto la società alla Banca, né se tali garanzie fossero venute meno a seguito delle procedure esecutive. Soprattutto, non era emerso alcuna prova che la società non avesse altre risorse, o altre fonti di liquidità o altri conti correnti, cioè quale fosse la sua effettiva situazione economica e patrimoniale.

La Corte d’Appello, in assenza di prova della situazione patrimoniale ed economica della società, non ha potuto valutare se l’esecuzione della sentenza avrebbe causato un pregiudizio irreversibile e non risarcibile in caso di annullamento della sentenza. Al contrario, il lavoratore aveva dimostrato la propria solvibilità percependo un reddito da lavoro dipendente a dimostrazione che, in caso di accoglimento del ricorso in Cassazione, la società sarebbe stata in grado di recuperare le somme eventualmente versate in esecuzione della sentenza.

In conclusione, la richiesta di sospensione dell'esecuzione della sentenza è stata rigettata, non sussistendo il requisito del danno grave ed irreparabile.

Scopri di più